"EDUCARE" OGGI
L’azione pedagogica, in una società “evoluta” e oltremodo assoggettata alle seduzioni di una tecnologia avanzata (internet, mass-media e altro), capace di sovvertire pressoché tutti gli equilibri che nel recente passato rappresentavano i capisaldi educativi, soprattutto a dimensione genitoriale e scolastica, è oggi diventata un’arte di difficilissima attuazione.
Qualche tempo fa ho seguito con interesse un dibattito televisivo laddove, presenti genitori, insegnanti, psicologi, religiosi e altre rappresentanze, si trattava appunto il delicato problema dell’educazione dei giovani, sia al cospetto di un ambiente sociale generale sia, in particolare, in quello familiare e scolastico.
Mi colpì oltremodo, addirittura confortandomi (io sono stato “educato” in tale maniera, senza subire traumi di sorta), l’asserzione di un illustre psicologo che affermò senza mezzi termini che “uno scappellotto, dato da un genitore al proprio figliolo per indurlo al rispetto delle giuste regole, soprattutto se l’insubordinazione è reiterata e oltrepassa i limiti consentiti, non ha mai fatto male a nessuno, anzi…"
Il riferimento, ovviamente, escludeva casi di particolare gravità, come quando, ad esempio, un genitore esagera con la violenza fisica nell’educazione dei figli e si espone al rischio di commettere addirittura un reato, quello di abuso dei mezzi di correzione.
Ancora più problematiche sono, nel processo educativo, il ruolo e la responsabilità degli insegnanti, che si ritrovano, spesso in solitudine, ad affrontare situazioni davvero complesse.
Che lo “scappellotto” dato dal genitore, ancorché con nobili propositi educativi, non sia contemplato nel patrimonio culturale e professionale di un insegnante, è assiomatico; anzi, talvolta avviene addirittura il contrario:
L’azione pedagogica, in una società “evoluta” e oltremodo assoggettata alle seduzioni di una tecnologia avanzata (internet, mass-media e altro), capace di sovvertire pressoché tutti gli equilibri che nel recente passato rappresentavano i capisaldi educativi, soprattutto a dimensione genitoriale e scolastica, è oggi diventata un’arte di difficilissima attuazione.
Qualche tempo fa ho seguito con interesse un dibattito televisivo laddove, presenti genitori, insegnanti, psicologi, religiosi e altre rappresentanze, si trattava appunto il delicato problema dell’educazione dei giovani, sia al cospetto di un ambiente sociale generale sia, in particolare, in quello familiare e scolastico.
Mi colpì oltremodo, addirittura confortandomi (io sono stato “educato” in tale maniera, senza subire traumi di sorta), l’asserzione di un illustre psicologo che affermò senza mezzi termini che “uno scappellotto, dato da un genitore al proprio figliolo per indurlo al rispetto delle giuste regole, soprattutto se l’insubordinazione è reiterata e oltrepassa i limiti consentiti, non ha mai fatto male a nessuno, anzi…"
Il riferimento, ovviamente, escludeva casi di particolare gravità, come quando, ad esempio, un genitore esagera con la violenza fisica nell’educazione dei figli e si espone al rischio di commettere addirittura un reato, quello di abuso dei mezzi di correzione.
Ancora più problematiche sono, nel processo educativo, il ruolo e la responsabilità degli insegnanti, che si ritrovano, spesso in solitudine, ad affrontare situazioni davvero complesse.
Che lo “scappellotto” dato dal genitore, ancorché con nobili propositi educativi, non sia contemplato nel patrimonio culturale e professionale di un insegnante, è assiomatico; anzi, talvolta avviene addirittura il contrario:
Violenza a scuola, i docenti si ribellano
Una petizione al presidente Mattarella ha superato 52 mila
firme: "Serve una legge che dia più potere agli insegnanti e con pene più
dure". La Flc Cgil: "Ci costituiamo parte civile contro i genitori violenti".
Nel 2018 ventiquattro aggressioni a maestri e professori. (la Repubblica)
Dalla cattedra cui si propone agli studenti, il docente, oltre alle nozioni tecniche concernenti la propria disciplina, ha l’elevato compito di trasmettere agli stessi “valori” educativi esemplari, spontaneità, questa, d’indubbia valenza formativa riguardo allo sviluppo culturale e sociale degli allievi.
Pur tra possibili difetti, intrinseci nel bagaglio umano di ogni creatura, l’insegnante, per sua stessa natura, è portatore di attitudini positive, tra cui quella di una grande predisposizione al dialogo con i discenti, favorendo, nell’ambito della classe, serenità, entusiasmo e quant’altro sia giovevole alla crescita armonica dei ragazzi. E’ veramente raro, infatti, ancorché talvolta in sofferenza, che egli, l’insegnante, si ritrovi in situazioni trascendenti, che sia privo di equilibrata e giusta autorevolezza o che non si proponga agli alunni con un lessico adeguato, consapevole com’è che la violenza verbale, stante la forza talvolta negativa delle parole, può essere perniciosa quanto o più di quella fisica.
Al professore non è consentito mettere in discussione il discente, soprattutto nella sua inviolabile sacralità personale, ancorché meritevole di reprimenda. E’, al contrario, l’atto d’indisciplina compiuto che richiede di essere corretto. Sostituendo l’azione con la persona, ancor di più se si tratta di giovani di età scolare, si rischia di danneggiare il soggetto stesso cui il richiamo è diretto, portandolo a perdere la fiducia in se stesso e a soffrire poi nell’insicurezza ingenerata dalla stessa azione educativa (o punitiva).
La consuetudine, purtroppo invalsa a livello generale, di mettere in discussione la persona anziché l’atto compiuto, che solitamente è limitato e circoscritto nel tempo, non dimora, perlomeno non dovrebbe, nell’ambito di un coerente percorso educativo.
Non è nobile, ad esempio, apostrofare un alunno o, in generale, qualsiasi altra persona, ancorché meritevole di biasimo, con la frase “sei uno sciocco”.
A essere colpita, in questo caso, non è l’insubordinazione compiuta, ma la persona stessa, che meglio avrebbe sopportato l’espressione: “Hai commesso una sciocchezza”. Che dire di: “Sei uno stupido”, anziché “hai fatto una stupidata”; “sei un cretino”, al posto di “hai fatto una cretinata”; “non vali nulla”, al posto di “hai sbagliato”?
Mi fermo qui, anche per evitare il coinvolgimento in una terminologia più “audace”, ancorché, purtroppo, usata e abusata nei più svariati ambienti, anche tra gli adulti, nei luoghi di lavoro, quando taluni “capi”, particolarmente altezzosi, umiliano propri subordinati facendoli sentire delle mediocrità: “Tu non capisci nulla” anziché, ad esempio, “non hai capito ciò che ti ho detto, forse non mi sono spiegato bene”.
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